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Madame No

INTERVISTA A LORENZO MARCHIORI

Aggiornamento: 1 mar 2021


Sono una donna fortunata e ammetto di essere stata una bambina fortunata. Uno dei giorni più felici della mia infanzia è il giorno in cui la maestra delle elementari portò la nostra classe in gita alla redazione del Gazzettino.



Il mio ricordo di quel giorno è fresco e lucido, nonostante siano passati più di trent'anni. Ho adorato vedere i giornalisti a lavoro, erano tutti insieme in una grande stanza. Parlavano a voce alta, noi camminavamo accostati ai muri per non disturbare. Si passavano fogli da un tavolo all'altro, qualcuno correva, altri avevano il capo chino sul banchetto. Ricordo la grande sala riunioni. Vuota, con un tavolo maestoso a riempimento. Quadri alle pareti ma non ho memoria di quali.


Sono una donna fortunata, nella mia cerchia di amicizie posso contare una dozzina di giornalisti. Quando dico che posso contare, non intendo solo la funzione numerica parlo di un confidare.


Lorenzo Marchiori lavora al Gazzettino, è Responsabile del settore Cultura e Spettacoli del Friuli Venezia Giulia e si può dire che è anche un mio amico. Non di quelli di tutti i giorni, non amico del quotidiano ma figura solida e presente in svariati momenti della mia crescita letteraria e personale.

Quando io muovevo i primi passi nel mondo della scrittura, lui aveva già quindici anni di esperienza al Gazzettino di cui dieci da professionista giornalista.


Siamo tutti e due Veneziani, tuttavia...non ci siamo mai incontrati a Venezia.


Abbiamo studiato entrambi a Mestre e passato l'adolescenza nelle zone limitrofe, non abbiamo amici comuni qui, nessuno.


La prima volta che gli ho stretto la mano eravamo a Modena, che non ha nulla a che vedere con le nostre origini ne con i luoghi in cui siamo cresciuti.


«Quando la sera del 6 maggio la terra tremò tra Gemona e Artegna, tutti avvertirono la scossa anche lontano dal Friuli. L’eco del sisma arrivò con le sue vibrazioni a tutta l’Italia centro-settentrionale fino a Roma e a Torino, all’Austria, alla Svizzera, la Repubblica Ceca e la Slovacchia, gran parte della Germania e della Croazia e parte della Francia, della Polonia e dell’Ungheria. Ma pochi al di fuori dell’area colpita ne compresero la gravità. Le linee telefoniche erano andate in tilt, comprese quelle dei vigili del fuoco. Qualcosa di grave era accaduto, ma per comprenderne l’entità ci vollero le ore della notte e quelle dell’alba del 7 maggio. »

Questa era la voce di Lorenzo Marchiori, in uno dei molti articoli che ha scritto e che io ho particolarmente a cuore.


Apprezzo moltissimo la sua forma, per svariati motivi, non solo per l'utilizzo preciso e funzionale delle parole, il metodo. Una delle sue peculiarità è il suo essere versatile in modo assoluto, qualsiasi articolo io abbia letto, che porta la sua firma, è avvalorato da un preciso marchio di fabbrica dato dalla sua voce, un timbro, una intensità che lui riesce a rendere in egual modo pur parlando di argomenti diversi.


E’ anche per questo che ho pianto, visitando il lager di Auschwitz con le primule che spuntavano dai prati; oppure toccando con mano la feroce semplicità del muro che separava la Germania, mentre il sole di un mese di giugno rifiutava di tramontare e colorava il cielo della notte; e anche fissando da un viale di Sarajevo le verdi colline che potevo quasi toccare con mano davanti al mio sguardo, dalle quali i cecchini facevano il tiro a segno sui suoi abitanti, ostaggi dell’ennesima ambizione militare e politica di un solo individuo.
Il modo migliore per amare l’Europa non è viaggiare in aereo, ma usare l’auto o il treno. Partire alle 2 di notte da Bologna, attraversare la pianura padana arrivando in Liguria, fermandosi a fare colazione a Cannes, pranzare sui Pirenei dopo aver costeggiato la Camargue, sorseggiare una birra sulle ramblas di Barcellona e giungere ad Alicante dopo aver superato Siviglia, cenando a mezzanotte nei locali del porto. Io l’ho fatto ed è nel corso di questi viaggi che ho amato ancora di più l’Europa e le sue genti.

Ovviamente anche questo era un pezzo di Lorenzo Marchiori .


PER LA RUBRICA TALK OF FAME: LORENZO MARCHIORI


Caro Marchiori, ho pensato fosse opportuno aprire con una domanda diretta: un giornalista che non è dotato di buona scrittura ma ha notizie importanti da dare, può emergere nelle redazioni? Quanto conta, nella stesura di un articolo, l’esposizione e quanto il fatto?

Conta innanzitutto la notizia, che io definisco sempre come il fatto che racconteresti a tavola, in famiglia, appena rientrato a casa. A seguire, il modo in cui la si racconta. Ricordo di aver assegnato, anni fa, l'incarico di redigere un articolo fittizio di cronaca nera a un gruppo di studenti universitari del corso di laurea in Scienze e tecnologiche Multimediali a Pordenone. Uno studente scrisse di una bomba in piazza San Pietro a Roma, con cento morti tra cui il Papa. L'accenno al pontefice defunto compariva nella decima riga dell'articolo. Quindi direi che innanzitutto, bisogna saper riconoscere le notizie (come nei boschi i cercatori di funghi) e solo in un secondo momento la capacità di saperle servire a tavola.


Restiamo nel vivo del suo lavoro, come si svolge dal punto di vista temporale? C’è un momento che identifico come tempo trascorso in redazione ma la ricerca? L’elaborazione dei pezzi? Lavora anche fuori dalla redazione, in quale modo e misura?

I giornalisti ormai sono divisi in due macrocategorie: i cronisti e coloro che operano dietro le quinte, coordinando il lavoro di produzione di un giornale, cartaceo oppure web: scelgono quando e come dare una notizia, la lunghezza e priorità degli articoli, la titolazione, la scelta di eventuali immagini di contorno. Le notizie arrivano dalle fonti di informazioni attraverso contatti personali, comunicati e conferenze stampa, la frequentazione delle piazze reali e social. Dopodiché ritengo sempre necessario essere aggiornati fuori dall'orario di lavoro sugli argomenti di competenza, e non solo. Per informare, è necessario innanzitutto essere informati, saper maneggiare la "materia".



Lei era presente alla mutazione, quella che ha fatto sì che oggi una gran parte di noi legga i giornali su un tablet o telefono e non più su carta. Un fattore positivo per i lettori (ma forse solo per me) si traduce nel poter evitare di mostrare goffaggine ripiegando il giornale, non ho mai imparato, per il resto preferisco la carta. Vuole raccontarci come è andata dall’interno?

Come il fiume della Storia, i fatti e cambiamenti non avvengono dalla sera alla mattina, ma si svolgono scorrendo ora rapidi e ora placidi. Ho iniziato nel 1989, quando non c'erano smartphone, mail e siti web. Ho scritto i primi articoli, per anni, con la macchina da scrivere (spiega tu pure di cosa si tratta) oppure a penna, su un bloc notes mentre viaggiavo in auto, oppure seduto al tavolo di un bar, per poi dettare l'articolo a una categoria di impiegati ora scomparsa - i dimafonisti - che al telefono registravano quanto avevo scritto per poi inserirlo nel sistema informatico del giornale. Piano piano, sono arrivati i telefoni cellulari, nei computer dei redattori è stato inserito prima il programma di posta elettronica (una novità come il primo elefante vivo portato in giro per le calli di Venezia) e poi internet. Passo dopo passo, gli strumenti a disposizione di un giornalista sono diventati più efficienti, rapidi, efficaci. Sono spariti fattorini, dimafonisti, compositori delle pagine in tipografia...Siamo rimasti noi giornalisti, ibridi rispetto a trent'anni fa ma sempre con lo scopo primario di informare.


Quale è stato l’elemento di maggiore difficoltà nell’attraversare il cambiamento?

Per me ci sono state semmai sfide e opportunità. Per alcuni colleghi invece le difficoltà hanno riguardato il cambiamento di mentalità. Come oggi rimpiangiamo la vita pre pandemia, così nel tempo ci sono stati giornalisti che hanno faticato a mutare le modalità di lavoro. Per dire, ancora oggi ho un collega che comunica con i collaboratori attraverso sms e mail e non usa messenger, whatsapp e altre forme digitali.


Nell’introduzione ho accennato brevemente alle sue doti di relatore e di avere assistito a delle sue presentazioni di autori, a dibattiti, a interviste. Le è mai capitato di trovarsi davanti a una persona che le era ostile? Come ne è uscito? Come condurrebbe in quel caso?

Mi è capitato più di una volta. Ho anche rinunciato a intervistare una cantante che aveva atteggiamenti troppo da diva (no, nomi non ne faccio). Nella maggior parte dei casi ne sono uscito fuori considerando che l'interlocutore maldisposto è un essere umano con un proprio carattere, non sempre socievole, e i propri momenti di difficoltà. Quindi mi sono messo al servizio del pubblico, cercando con un pizzico di ironia e molta pazienza di ricavare dalla persona che definisci ostile almeno un minimo delle risposte utili a soddisfare la curiosità delle persone presenti. Ritengo che il moderatore, l'intervistatore, in questi casi debbano fare un passo indietro, non essere protagonisti dell'incontro, per far risaltare il personaggio ospite.


Quando interagisce con gli intervistati, le è accaduto di trovarsi di fronte una persona completamente diversa da come era stata dipinta? Riesce sempre a scindere persona e personaggio?

Se non separassi il personaggio dalla persona, rischierei solenni delusioni. Un personaggio, intendo quelli reali e non quelli della finzione, fornisce di se un'immagine inevitabilmente parziale. E' come andare al ristorante e voler visitare la cucina dove si preparano i piatti serviti a tavola (lo sconsiglio) . Cerco sempre di mettere a proprio agio chi devo intervistare, inizio chiedendo come stanno, gesto che oggi spesso dimentichiamo di fare ai nostri interlocutori anche nella vita quotidiana, evito di dare sfoggio del mio sapere e provo a porre domande che aiutino a conoscere la persona dietro al personaggio. Le domande sgradevoli le pongo solo alla fine, così evito che l'intervistato si irrigidisca, chiudendosi, e tronchi la conversazione. Ho avuto la fortuna di conoscere, dopo le interviste, persone molto deliziose. Ad esempio con Mario Biondi abbiamo scoperto di coltivare la stessa passione per il gruppo musicale progressive de Le Orme. E il cantante della band, Aldo Tagliapietra, si è rivelato essere una delle persone più disponibili con il pubblico al punto tale che verso le tre ore di incontro ho dovuto io troncare la serata. Spezzo una lancia a favore di un personaggio noto, anche in televisione. Lo scrittore Mauro Corona è ben più sensibile di come è apparso nel programma di Bianca Berlinguer. Ma, come ha confessato lui una volta, fare il personaggio in tv aiuta a vendere libri.


Quando scrive un articolo come fa a dosare l’empatia e il suo parere personale? Come riesce a dare al lettore una imparzialità di fondo?

L'imparzialità totale non esiste, nemmeno nell'informazione che si proclama la più libera e indipendente. Esistono punti di vista, pirandelliani. Per prima cosa cerco di svestirmi dalle opinioni mie personali e faccio parlare i fatti, evitando di abusare di aggettivi e avverbi. Un "tragico incidente" si racconta da solo, con i dettagli, evitando di usare il "tragico". Una "notizia clamorosa" è tale proprio perché fa clamore (ad esempio il Papa morto in piazza San Pietro, con altri 99 fedeli presenti, per lo scoppio di una bomba". Attenersi ai fatti, descrivere con precisione un fatto, accadimento, è il modo migliore per aiutare il lettore a formarsi una propria opinione. E poi conta l'autorevolezza della testata giornalista, dell'autore di un articolo. Due aspetti, questi ultimi, a volte poco coltivati.


Le è mai successo di trovarsi totalmente in disaccordo con le idee di una persona della quale deve scrivere? Un cantante, un attore, un politico, un autore…analogamente, se deve recensire un libro indigeribile o un concerto da dimenticare, come si comporta? Lei è uno che stronca?

Certo che mi sono trovato in disaccordo, ma come ho risposto sopra, cerco sempre di fare un passo indietro: il mio compito professionale non è puntare il dito sentenziando chi ha ragione o torto, chi è nel giusto o meno. Io fornisco notizie. Quanto alle recensioni, non amo stroncare per il piacere di farlo: che si tratti di un libro o di un concerto innanzitutto mi misuro con il livello di notorietà dell'artista o scrittore. Se è debuttante, riporto pregi e difetti dell'opera o spettacolo, se è affermato allora compio un esercizio narrativo più articolato e approfondito, indicando con dovizia di dettagli eventuali punti deboli di quanto ho letto/visto/ascoltato, evitando il più possibile gli aggettivi. Faccio un esempio: "Cinquanta minuti di esibizione per l'artista tal dei tali, salito sul palco in ritardo di mezz'ora rispetto a quanto annunciato e privo di voce. Quasi assente, la band ha provato a coprire i momenti in cui faticava a tenere il ritmo della musica, con una scaletta fatta di poche canzoni e conclusasi con un bis della sua hit del momento, con cui aveva aperto il concerto, lasciata cantare dai fan come in un grande karaoke collettivo".
Non serve che io dica che il concerto è stato imbarazzante, lascio decidere al lettore.

Da lettrice posso decidere se voltare pagina, evitare di sapere e rimuginare su accadimenti particolarmente dolorosi o violenti. A lei questo privilegio non è concesso e anzi, so per certo che si è trovato a raccogliere testimonianze e ad articolare fatti per i quali io non dormirei la notte. Come gestisce la sua parte emotiva? Dove vanno a finire i dispiaceri?

Come un medico, come un parroco o un agente delle forze dell'ordine, cerco di operare un distacco emotivo tra la mia vita privata e quella professionale. Non è facile, ma mi sono sempre forzato in questo senso. Ho scritto di suicidi o incidenti mortali con vittime persone a me care, ho annusato l'odore dolciastro della carne avariata di un barbone trovato morto in una casa sfitta dopo giorni, mi sono recato sul luogo dove tre poliziotti erano morti per lo scoppio di una bomba, porgendo la spalla a un agente che piangeva come un bambino perché uno dei tre agenti era il suo caro compagno di pattuglia. Ho un cassetto, ormai armadio a più ante, in cui lascio la sera (o la notte) tutti questi dispiaceri e cerco di tenerli in ordine e separati dal resto. Non è facile: ci sono colleghi che hanno sofferto del burnout, termine inglese che rende meglio di qualsiasi parola italiana, e che lo affondano nell'alcool, in una vita esagerata, o comunque faticano a dormire sereni. Non è il mio caso, ma capita soprattutto ai giornalisti inviati sui luoghi di guerra o dove nel mondo avvengono tragedie e catastrofi epocali.


Lei vive in Friuli ma, come sviscerato nell’introduzione, è nato e cresciuto in Veneto e ancora parla in Veneziano, se vuole. Come mai si è trasferito? Cosa è accaduto?

Il lavoro mi ha portato nel 1993 dal Veneto al Friuli, ho solo nuotato nella corrente giorno dopo giorno. Ho avuto la fortuna di conoscere nuove persone, ambienti e culture. Ho frequentato tutti i settori di un giornale e del giornalismo e spero di continuare.


Marchiori, mi perdoni, resto ancora un attimo nella sua sfera privata. Quanta forza ha impresso la sua famiglia nella sua crescita? Mio padre era pasticcere, si alzava tutte le mattine alle 4 e passava le sue giornate in piedi, rientrava da lavoro sempre molto stanco, sin da quando ero piccina mi ripeteva tutti i giorni di studiare e di trovare un lavoro da svolgere seduta. Cosa le diceva la sua famiglia?

Ho perso in età giovanile entrambi i genitori, ma entrambi fino al loro ultimo giorno di vita mi hanno sempre ricordato di svolgere bene il mio dovere, fosse nella scuola, sul lavoro o nella vita privata. Solo mia madre mi ha visto giornalista e negli anni della gavetta mi ha sostenuto nei fatti, senza troppe parole o discorsi. A casa non si manifestavano molto le emozioni e i pensieri, si preferivano i fatti. Mio padre mi ha regalato negli anni Ottanta la mia prima macchina da scrivere, che ancora conservo, che mi è stata poi utile nei primi quattro anni di pratica giornalistica. Mia madre, negli anni in cui sono stato collaboratore, mi ha sempre tenuto un pasto caldo e gli abiti puliti anche quando guadagnavo poco e correvo senza orari sette giorni alla settimana, senza farmi pressioni o giudicarmi. A entrambi, sono riconoscente per questo.


Lei è padre, cosa dice ai suoi figli?

Di compiere il loro dovere e coltivare interessi, non limitandosi ai social. Leggere libri, parametrati alla loro età, è per loro naturale.


C’è una figura che nel suo percorso giornalistico lei considera un Maestro?

Lo definisco il mio mentore, si chiamava Luca Miani ed era un cronista di razza. Per quasi trent'anni ha scritto di sport, ma avrebbe potuto spiccare in qualsiasi altro settore. Mi ha insegnato la cura e precisione nel cercare le notizie, nel non fermarsi solo a quello che mi viene fatto vedere per andare oltre, scavare nella notizie e nei personaggi, attendere anche ore e ore alla porta per poi cogliere l'attimo giusto in cui le persone di cui scrivere possono aprirsi. Un'altra persona a me cara venuta a mancare troppo presto, ma ricordo ancora il suo sguardo e le sue poche parole la sera in cui a cena abbiamo brindato alla mia assunzione. Anche lui, di poche parole e molti fatti. E comunque ogni collega più anziano, nel bene e nel male, mi ha insegnato qualcosa. Malgrado gli sviluppi digitali, ritengo ancora il giornalismo un mestiere artigianale in cui si apprende anche rubando con gli occhi e le orecchie. Rispetto a trent'anni fa sono cambiati solo gli strumenti.


Chi è il suo lettore ideale?

Ninetta Furlana e Gino Fureghin, anziani personaggi fittizi del mio immaginario professionale. Se un mio articolo è compreso dalle persone semplici e poco istruite significa che oltre ai lettori colti e preparati sono riuscito a farmi capire da tutti. Non amo chi dà sfoggio di sapere nella scrittura giornalistica quasi a volersi dimostrare superiore ai lettori. I fatti, la precisione, competenza e chiarezza espositiva vengono prima delle insicurezze e bisogni del nostro ego.


Ho un’ultima domanda, qual è l’articolo che sogna di scrivere? L’intervista nel cassetto?

Sogno sempre un viaggio in auto dal Nordest d'Italia al mar Baltico, attraversando le nazioni d'Europa con le loro storie, tradizioni, culture e persone. Un lungo reportage come fece Luigi Barzini, che nel 1907 viaggiò in auto da Parigi a Pechino, scrivendo per il Corriere della Sera e il Daily Telegraph.


Caro Marchiori, le mie domande sono finite ma le chiedo di dare un consiglio prezioso a chi insegue il sogno di diventare giornalista.

Dopo aver sconsigliato di intraprendere questa strada professionale, per scoraggiare chi non ha "fame" del mestiere, suggerisco innanzitutto di leggere molto, indicando anche nomi e cognomi di colleghi e testate giornalistiche, e di avere umiltà. Di mettersi al servizio del lettore per raccontare quel fatto e dettaglio che racconterebbero la sera a casa, ai famigliari seduti al tavolo per cena.

Ho usato il Lei perché ho dei ricordi precisi del mio percorso scolastico che lo suggerivano in caso di intervista, però ora ti saluto con un grazie di cuore.

Grazie mille Lorenzo, alla prossima!

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